Corriere buone notizie
17 Ottobre 2017
di Cesare Cremonini
Accanto alla chirurgia estrema praticata da medici straordinari, non si ricorda mai abbastanza l’impegno quotidiano di chi senza clamore accoglie i malati e le famiglie dal punto di vista psicologico e umano
L’«io» senza il «noi» dura niente. Sentiamo spesso parlare di «integrazione» e di «accoglienza», parole entrate nel lessico quotidiano, pronunciate di fronte a una birra con gli amici, uscendo da uno stadio la domenica o la sera dopo il tigì, a tal punto che ormai nemmeno più ricordiamo il loro vero significato. Sono ormai prigioniere delle strumentalizzazioni dei partiti, dei dibattiti in Parlamento, dei talk show, dei cortei lungo le strade. Ma esiste un’accoglienza vera che è quella medica, lontana dal chiasso delle parole. «Perché il rumore non fa bene, e il bene non fa mai rumore», disse il pianista Castiglioni.
«Lorraine è venuta in Italia dallo Zimbabwe a 12 anni – mi racconta il dottor Gabriele Bronzetti della Cardiochirurgia Pediatrica dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna –. Aveva un cuore sfiancato da una malattia reumatica. È stata accolta da una famiglia. Giovanna, vedova con due figli. Presto fu chiaro che non bastava un intervento, serviva un cuore nuovo. Glielo regalò una segretaria di Modena morta di aneurisma. Lorraine a causa delle cure antirigetto non potè tornare in Africa e diventò la terza figlia di Giovanna. Poi il cuore trapiantato si ammalò. Le fu proposto un nuovo trapianto ma lei rifiutò, disse che ne aveva già avuto uno di regalo, era stata felice per molti anni. Aveva molta fede. Morì».
Se la punta più alta dell’impegno nella cura dei malati sono quindi i «miracoli della medicina moderna», la chirurgia estrema sostenuta da team di medici straordinari, le vite salvate grazie alle innovazioni tecnologiche, non si ricorda mai abbastanza che alla base di questa piramide di successi resta l’impegno quotidiano di chi senza clamore accoglie i malati e le famiglie dal punto di vista psicologico e umano. Anche in questo caso la metafora ci torna utile. Prendiamo questi malati come piantine spiantate: il giardiniere più tenace e ostinato, e cioè il chirurgo più moderno, le pota e le raddrizza, ma senza il giusto suolo che le accoglie, moriranno. Una bimba cardiopatica curda disse: «Perché devo rischiare un intervento al cuore se poi nel mio Paese posso saltare su una mina?». «Siamo cellule dello stesso tessuto. In Africa o altrove nel terzo mondo vediamo bimbi così gravi che ci chiediamo come facciano a vivere per anni, per poi morire un metro prima del
Una bimba curda mi disse: perché dovrei sopravvivere facendomi operare
se poi nel mio Paese
posso saltare su una mina? Ma intanto a Bologna
ecco come una associazione aiuta i ricoverati e i loro cari
traguardo. Ne abbiamo persi alcuni mentre salivano sulla jeep per l’aeroporto, dopo anni che pur vivevano mangiando polenta sul pavimento nudo della missione. Come piantine strappate dalla loro terra. Hanno bisogno di un tessuto che li accetti e se questo cambia brutalmente, anche se è migliore, li fa morire. Ogni operazione è un espianto e un trapianto. Il cuore più di tutti gli organi sente l’altro. È osmosi, empatia, prossimità, non solo tecniche all’avanguardia».
Sono molte le realtà che lavorano ogni giorno per fare dell’accoglienza non più un fatto politico, sociale o religioso ma umano, solo umano. La medicina e gli ospedali, con l’attività di Associazioni e gruppi, sono l’esempio più alto e tangibile di quanto questo sia possibile. Come lo è stato per un gruppo di genitori e volontari che nel 1997 hanno fondato a Bologna l’Associazione Piccoli Grandi Cuori, per aiutare i bambini con cardiopatie gravi e le loro famiglie durante il ricovero nel Reparto di Cardiochirurgia pediatrica. Possibile. Come sanno essere gli uomini che hanno cuore. Umani, accoglienti.